La legge applicabile ai contratti individuali di lavoro

Premessa

Il regolamento n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) contiene delle disposizioni speciali per determinare la legge applicabile ai contratti individuali di lavoro (art. 8).
Analogamente a quanto previsto dal regolamento n. 1215/2012 in materia di competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni (Bruxelles I-bis), tali disposizioni, derogatorie rispetto alla disciplina generale, hanno l’obiettivo di tutelare il lavoratore in quanto parte debole del contratto.

Le nozioni di «lavoratore» e di «contratto di lavoro»

Il regolamento Roma I, così come il regolamento Bruxelles I-bis, non contiene né una definizione di «lavoratore» né di «contratto di lavoro».

Tuttavia, la Corte di giustizia ha fornito alcuni chiarimenti in merito:
– Caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza per cui una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione (sentenza 3 luglio 1986, causa C-66/85, Lawrie-Blum; sentenza 23 marzo 2004, causa C-138/02, Collins).
– I contratti di lavoro sono caratterizzati da un nesso durevole fra il lavoratore e l’attività dell’impresa che si ricollega «al luogo dell’esercizio dell’attività, il quale determina l’applicazione di norme imperative e di contratti collettivi» (sentenza 15 gennaio 1987, causa C-266/85, Shenavai; sentenza 15 febbraio 1989, causa C-32/88, Six Constructions).

Ai sensi della relazione Jenard/Möller di accompagnamento alla Convenzione di Lugano del 1988 in materia di competenza giurisdizionale ed esecuzione delle decisioni, nonostante l’assenza di una nozione autonoma, si può considerare il contratto di lavoro presupponga un vincolo di dipendenza del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

L’art. 8 del regolamento Roma I fornisce i criteri per determinare la legge applicabile ai contratti di lavoro con elementi di transnazionalità.

La legge scelta dalle parti

Ai sensi dell’art. 8, par. 1, il contratto di lavoro è di regola disciplinato dalla legge scelta dalle parti.
In virtù delle finalità di tutela della parte debole perseguite della norma, tale scelta non può privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente in base alla legge che sarebbe stata applicabile in mancanza di scelta.

Il Paese in cui, o a partire dal quale, il lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro

I paragrafi 2, 3 e 4 dello stesso art. 8 prevedono una serie di criteri “a cascata”, tra i quali, ovvero, esiste un rapporto gerarchico.
L’art. 8, par. 2, prevede come principale criterio di collegamento il «Paese in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività». In caso in cui tale attività sia collegata con una pluralità di Paesi, occorre riferirsi a quello «a partire dal quale» il lavoratore svolge il proprio lavoro.
Lo svolgimento «abituale» di un’attività lavorativa si riferisce al Paese in cui il lavoratore, in esecuzione del proprio contratto, adempie la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro.
La Corte di giustizia dell’Unione ha indicato alcuni criteri utili per individuare il Paese di svolgimento abituale del lavoro, che comprendono:
– il luogo di lavoro effettivo;
– la natura dell’attività svolta;
– gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore;
– il Paese nel quale o dal quale il lavoratore svolge la sua attività o una parte essenziale della stessa, riceve istruzioni sui suoi compiti e organizza il suo lavoro;
– l luogo in cui sono situati gli strumenti di lavoro;
– il luogo in cui il lavoratore è tenuto a presentarsi prima di assolvere ai suoi compiti o a ritornare dopo averli portati a termine
(sentenza 15 marzo 2011, causa C-29/10, Koelzsch; sentenza 15 dicembre 2011, causa C-384/10, Voogsgeerd).
Il criterio del Paese di svolgimento abituale del lavoro ha carattere prioritario rispetto agli altri e deve essere interpretato in senso ampio (sentenza Koelzsch).

Il Paese nel quale si trova la sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore (art. 8, par. 3)

Il criterio della sede di assunzione del lavoratore può essere utilizzato soltanto nel caso in cui non si riesca a determinare il Paese in cui, o a partire dal quale, il lavoratore svolge abitualmente il proprio lavoro.
Nella sentenza Voogsgeerd, la Corte ha fornito alcune indicazioni sull’applicazione di tale criterio:
– la nozione si riferisce esclusivamente alla sede che ha proceduto all’assunzione e non a quella a cui il lavoratore è collegato per l’effettivo svolgimento delle sue mansioni. Gli elementi pertinenti ai fini della determinazione di tale sede sono unicamente quelli relativi alla procedura di conclusione del contratto, in forma scritta o verbale, quali la pubblicazione dell’annuncio di assunzione o lo svolgimento del colloquio di assunzione;
– una «sede» non deve necessariamente essere dotata di personalità giuridica distinta e potrebbe essere, ad esempio, un ufficio, purché presenti un certo grado di stabilità e, in linea di principio, appartenga all’impresa che assume il lavoratore e costituisca parte integrante della sua struttura;
– la sede di un’impresa diversa da quella che, formalmente, risulta dal contratto come datrice di lavoro, può essere qualificata come «sede» ai sensi dell’art. 8, par. 3 del regolamento Roma I al sussistere di elementi oggettivi da cui si evinca una situazione concreta che diverga da quella che emerge dai termini del contratto. Questo in particolare nel caso in cui la sede “sostanziale” sia collegata al datore di lavoro formale – ad esempio qualora le due imprese abbiano il medesimo direttore – anche nel caso in cui il potere di direzione non le sia stato formalmente trasferito.

Il “collegamento più stretto” con un Paese diverso (art. 8, par. 4)

Nel caso in cui dall’insieme delle circostanze risulti che il contratto di lavoro presenti un collegamento più stretto con un Paese diverso da quello individuato in applicazione dei criteri di cui ai paragrafi 2 e 3, si applica la legge di quest’ultimo.
Nell’applicazione di tale clausola, a parere della Corte di giustizia (sentenza 12 dicembre 2013, causa C-64/12, Schlecker) occorre in particolare prendere in considerazione:
– il Paese in cui il lavoratore versa le imposte e le tasse sui redditi della sua attività;
– il Paese dove il lavoratore è iscritto al sistema di previdenza sociale e ai diversi regimi pensionistici, di assicurazione malattia e di invalidità;
– l’insieme delle circostanze del procedimento, quali, segnatamente, i parametri presi in considerazione per stabilire la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.

La direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi

La direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi – recepita in Italia con D.Lgs. n. 72/2000 di attuazione della medesima, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 136/2016, di attuazione della direttiva 2014/67/UE, concernente l’applicazione della direttiva 96/71/CE – fornisce un quadro di norme armonizzate relative alla disciplina del distacco dei lavoratori da uno Stato membro ad un altro nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi.
Ai sensi dell’art. 8, par. 2, del regolamento Roma I, la circostanza per cui il lavoratore svolga temporaneamente il proprio lavoro in un altro Paese non è sufficiente a modificare il Paese di abituale svolgimento del lavoro. Questa disposizione si applica ai casi di distacco temporaneo dei lavoratori.
La direttiva offre una tutela aggiuntiva al lavoratore, senza derogare al regolamento Roma I né alla precedente Convenzione di Roma, menzionata dai considerando 7-11 della direttiva. La direttiva stabilisce invero alcune norme di applicazione necessaria (v. in particolare le norme di protezione minima di cui all’art. 3, par. 1 ed il “nocciolo duro” di norme definite esplicitamente richiamato dal considerando 14) e le norme del Paese di distacco di attuazione delle stesse possono prevalere sulle norme del Paese di abituale svolgimento del lavoro (considerando 34 Regolamento Roma I).
A tal proposito, la Corte ha chiarito come l’applicazione delle norme nazionali dello Stato membro ospitante ai prestatori stabiliti, in quanto potenzialmente lesiva della libera prestazione di servizi, può avvenire soltanto nel caso di norme giustificate da ragioni imperative d’interesse generale e applicabili a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante, qualora tale interesse non sia tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito. Tra gli interessi in questione vi è la tutela dei lavoratori (sentenza 23 novembre 1999, causa C-376/96, Arblade; sentenza 15 marzo 2001, causa C-165/98, Mazzoleni).

Giulio Monga

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