Il matrimonio celebrato dal capo di un ufficio consolare italiano deve ritenersi celebrato in Italia o nello Stato in cui è stabilito l’ufficio consolare in questione?

Le norme pertinenti

L’art. 12 del decreto legislativo 3 febbraio 2011 n. 71, sull’ordinamento e le funzioni degli uffici consolari, attribuisce ai capi degli uffici consolari italiani la funzione di celebrare il matrimonio quando i nubendi, o uno di essi, possiedano la cittadinanza italiana. La celebrazione, si precisa, “può essere rifiutata quando vi si oppongono le leggi locali o quando le parti non risiedono nella circoscrizione”.

Varie norme di diritto internazionale privato attribuiscono rilievo al luogo di celebrazione del matrimonio. L’art. 28 della legge 31 maggio 1995 n. 218, ad esempio, stabilisce che il matrimonio deve reputarsi valido, quanto alla forma, se è considerato tale “dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”. L’art. 32 della medesima legge (una norma che opera solo alle condizioni stabilite dagli articoli 6 e 7 del regolamento (CE) n. 2201/2003, e in avvenire solo alle condizioni di cui all’art. 6 del regolamento (UE) 2019/1111) stabilisce che la giurisdizione italiana in materia di nullità e di annullamento del matrimonio, come in materia di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, sussiste – fra le altre cose – quando il matrimonio “è stato celebrato in Italia”.

Il problema

Quando si faccia questione delle norme indicate da ultimo in relazione ad un matrimonio c.d. consolare, cioè celebrato ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo n. 71/2011, sorge la necessità di stabilire se – agli effetti di tali norme – il luogo del matrimonio debba identificarsi con l’Italia, perché celebrato di fronte a un’autorità della Repubblica, o piuttosto con lo Stato straniero in cui l’ufficio consolare in questione è stabilito (di seguito anche lo Stato accreditante, o lo Stato territoriale).

Il quesito non sembra trovare risposte specifiche in giurisprudenza, neppure in relazione alle norme che regolavano il matrimonio consolare prima della riforma del 2011, ossia l’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 200 e, prima ancora, l’art. 29 della legge consolare unitaria, promulgata con regio decreto 28 gennaio 1866.

Analisi

Gli articoli 28 e 32 della legge n. 218/1995 sembrano dover essere interpretati nel senso che il matrimonio consolare, agli effetti delle disposizioni ora indicate, deve ritenersi celebrato in Italia, non nello Stato in cui è accreditata la rappresentanza consolare presso la quale è avvenuta la celebrazione.

La soluzione proposta muove dalla considerazione dei fini degli articoli 28 e 32 della legge n. 218/1995. Tali disposizioni mirano, rispettivamente, ad identificare l’ordinamento giuridico sulla base delle cui norme va apprezzata la validità formale del matrimonio, cioè l’attitudine dello stesso a determinare il sorgere del vincolo matrimoniale, e a determinare l’ambito della giurisdizione italiana rispetto alle domande tese a contestare la valida costituzione del vincolo medesimo, ad attenuare gli effetti giuridici che ne discendono o a provocarne senz’altro lo scioglimento. È dunque ragionevole pensare che le disposizioni in esame, nel riferirsi alla celebrazione del matrimonio, non alludano al matrimonio come fatto storico ma al matrimonio come atto costitutivo del vincolo matrimoniale di cui si discute. A questo titolo, ciò che rileva ai fini delle norme in parola non è tanto il luogo materiale in cui si è svolto il matrimonio in quanto fatto storico, quanto piuttosto la cornice giuridica in cui il vincolo matrimoniale ha visto la luce. Ove quel luogo e quella cornice non coincidano – come nel caso del matrimonio consolare, celebrato materialmente in un dato Stato, ma dalle autorità di uno Stato diverso e nella cornice delle relative regole – la proiezione del matrimonio che conta non è quella materiale, ma quella giuridica.

Un’interpretazione diversa condurrebbe, del resto, ad esiti difficilmente giustificabili.

Si prenda l’art. 28 della legge n. 218/1995. Se valesse, ai suoi fini, la localizzazione materiale del matrimonio come fatto storico, la valida costituzione del vincolo matrimoniale potrebbe dover essere apprezzata sulla base delle regole in vigore nello Stato straniero accreditante: regole che, tuttavia, il capo dell’ufficio consolare, richiesto di celebrare il matrimonio, non è tenuto ad applicare e di fatto non applica, in coerenza con l’art. 5, lett. f), della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963. Adottando la lettura qui avversata, il giudizio sulla validità formale del matrimonio finirebbe potenzialmente col dipendere da norme di cui né i coniugi né l’ufficiale celebrante potevano ragionevolmente mettere in conto l’applicazione.

La tesi criticata produrrebbe degli effetti inopportuni, se non senz’altro irragionevoli, anche in relazione all’art. 32 della legge n. 218/1995. Se si seguisse l’interpretazione qui rigettata, potrebbe di fatto essere impedito al giudice italiano di statuire su un matrimonio che i coniugi hanno evidentemente inteso ricondurre sotto l’impero delle leggi italiane. Non di rado, la scelta della via consolare nasce dalle difficoltà che i nubendi sanno, o si rappresentano, di incontrare sposandosi davanti alle autorità dello Stato territoriale, secondo le norme ivi in vigore. La lettura proposta in questa sede permette invece al giudice italiano di occuparsi di un matrimonio costituito secondo la legge italiana, con l’intervento dell’autorità italiana: viene in tal modo rafforzata l’aspettativa dei coniugi alla continuità delle posizioni giuridiche soggettive che ad essi spettano (o almeno che uno di essi rivendica) in dipendenza del matrimonio.

La conclusione

Sembra dunque corretto concludere che, agli effetti degli articoli 28 e 32 della legge n. 218/1995, il matrimonio celebrato dal capo di un ufficio consolare italiano deve ritenersi celebrato in Italia, non nello Stato in cui l’ufficio è stabilito.

Pietro Franzina

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