L’applicazione della shari’a in Europa e la tutela dei diritti fondamentali

Gli ordinamenti nazionali degli Stati europei possono venire in contatto con il diritto islamico fondato sulla shari’a in vari modi:

1) le norme di diritto internazionale privato uniformi dell’Unione europea (ad es., in materia di separazione personale e divorzio ai sensi del regolamento (UE) n. 1259/2010), le norme di diritto internazionale privato contenute in convenzioni internazionali (ad es., in materia di protezione dei minori ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996) oppure le norme di diritto internazionale privato nazionali nei settori non armonizzati (ad es., in tema di filiazione) possono richiamare la legge di uno Stato il cui ordinamento è fondato sulla shari’a; in questo contesto, è anche possibile che le norme di conflitto richiamino la legge di uno Stato che possiede un ordinamento plurilegislativo, in cui, su base personale e dunque alle persone di religione islamica, si applica la shari’a (si pensi all’India);

2) una decisione emessa in uno Stato terzo e fondata sull’applicazione di un diritto nazionale che comprende la shari’a tra le sue fonti può essere oggetto di una domanda di riconoscimento ed esecuzione in uno Stato europeo sulla base delle norme nazionali (o contenute in convenzioni internazionali) in materia di efficacia delle decisioni;

3) un ordinamento europeo potrebbe ammettere l’applicazione del diritto islamico fondato sulla shari’a nei procedimenti dinanzi ad organi che operano sul suo territorio: ciò avviene, ad esempio, almeno in via di fatto, in Gran Bretagna ad opera di organi che adottano decisioni non vincolanti, come i c.d. Shari’a Councils, o dinanzi ad organi arbitrali dinanzi ai quali le parti scelgono il diritto islamico come legge applicabile al merito (ad es. il Muslim Arbitration Tribunal).

Tuttavia, l’applicazione della shari’a è ritenuta idonea a porre difficoltà rispetto alla tutela dei diritti fondamentali con riferimento alle possibili discriminazioni che essa determina in danno delle donne, specialmente all’interno del rapporto matrimoniale.

Quando la questione dell’applicazione della shari’a si pone come conseguenza dell’operare delle norme di diritto internazionale privato (e dunque in sede di determinazione della legge applicabile in un giudizio interno ovvero in sede di riconoscimento o esecuzione di una decisione straniera), esistono strumenti tradizionali utilizzabili per realizzare le esigenze connesse alla tutela dei diritti fondamentali.

In particolare, l’incompatibilità di determinate norme sharaitiche con l’ordine pubblico può sia impedirne l’applicazione quale legge straniera richiamata dalle norme di conflitto, sia escludere l’efficacia di decisioni straniere che di esse fanno applicazione (per questa prospettiva, sia pure in termini diversi, v. Cass., 7 agosto 2020 n. 16804 e Cass., 14 agosto 2020 n. 17170), in ragione del contrasto con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali, anche di natura processuale (ad es., il rispetto del contraddittorio in sede di ripudio islamico).

Sotto un diverso profilo, per limitare gli effetti dell’applicazione della shari’a, può venire in gioco la tecnica della qualificazione, attraverso la quale gli istituti di origine straniera possono essere ricondotti a  – o esclusi da – determinate categorie del diritto interno in relazione alle loro caratteristiche: tale tecnica è stata, ad esempio, seguita dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha ritenuto che un divorzio islamico dinanzi ad un tribunale religioso siriano dovesse considerarsi alla stregua di un divorzio privato (sentenza 20 dicembre 2017, causa C-372/16, Sahyouni). In ragione di questa qualificazione la Corte di giustizia ha escluso che a tale tipo di divorzio potesse applicarsi il regolamento (UE) n. 1259/2010 in materia di legge applicabile alla separazione personale e al divorzio e, parallelamente, il regolamento (CE) n. 2201/2003, relativo alla competenza giurisdizionale e al riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale.

Un problema più complesso si è posto in relazione all’ordinamento greco e alla condizione giuridica della minoranza musulmana presente nella regione della Tracia Occidentale. Infatti, all’indomani della I guerra mondiale e in ragione dell’inclusione di aree in passato appartenute all’Impero Ottomano nel territorio dello Stato greco, quest’ultimo, con il Trattato di Sèvres del 1920 e con il Trattato di Losanna del 1924, aveva assunto impegni internazionali nel senso di garantire alla popolazione musulmana l’applicazione delle consuetudini islamiche in materia di diritto delle persone e della famiglia (compresa la materia successoria). Tali impegni erano stati poi realizzati con l’adozione di disposizioni legislative interne, che la giurisprudenza della Corte di cassazione greca considerava come un diritto speciale su base personale e come tale applicabile alle minoranze musulmane presenti sul territorio greco anche al di fuori di una manifestazione di volontà del singolo individuo, anche se la giurisprudenza interna aveva mostrato numerose oscillazioni, specialmente in ordine alla persistente rilevanza degli impegni internazionali assunti dalla Grecia con i trattati sopra menzionati.

Tale situazione ha formato oggetto di una decisione della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (19 dicembre 2018) nel caso Molla Sali c. Grecia, nel quale il ricorso era stato proposto dalla moglie di un appartenente alla comunità greco-musulmana, che era deceduto lasciando disposizioni testamentarie redatte secondo la disciplina del Codice civile greco, anziché secondo le norme della shari’a. I giudici nazionali avevano tuttavia ritenuto tale testamento nullo, in quanto non conforme alle norme speciali applicabili al testatore su base personale, e, di conseguenza, la moglie era rimasta esclusa dalla successione. Ella lamentava dunque la violazione degli articoli 6 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in combinazione con l’art. 1 del 1° Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, per il fatto che l’applicazione delle norme fondate sulla shari’a era stata considerata obbligatoria, indipendentemente dalla volontà dell’interessato, determinando una discriminazione a danno degli appartenenti alla minoranza religiosa, in quanto essi risultavano così privati della possibilità di beneficiare dell’applicazione delle norme ordinarie del Codice civile greco e subivano dunque un trattamento differente in relazione alla loro religione.

La Corte europea, accogliendo il ricorso proposto, ha considerato che, a seguito delle pronunce dei giudici interni, si fosse verificata una discriminazione ai danni della ricorrente, la quale aveva il diritto di attendersi, come qualunque altro cittadino greco, che la successione del marito fosse regolata dal testamento redatto nelle forme previste dal Codice civile, e che tale discriminazione non avesse carattere proporzionato. Per giungere a tale conclusione, la Corte ha anzitutto rilevato che un puntuale obbligo di fare applicazione della shari’a non poteva ricavarsi dai Trattati di Sèvres e di Losanna e ha sottolineato che, come evidenziato da una parte della stessa giurisprudenza greca e da vari organismi internazionali, l’applicazione della shari’a è suscettibile, di per sé, di determinare una violazione dei diritti fondamentali, in quanto i principi dalla stessa ricavabili hanno carattere discriminatorio verso le donne e verso i minori. Essa si è poi richiamata alla necessità di evitare che l’applicazione di un regime normativo speciale agli appartenenti a una minoranza religiosa si traduca in una pratica discriminatoria: in particolare, un simile regime deve comunque permettere ai componenti della minoranza di optare per la disciplina ordinaria applicabile a tutti i cittadini, anche in ragione del diritto degli appartenenti ad un gruppo minoritario di scegliere di non essere considerati come tali, in ossequio ai principi stabiliti dalla Convenzione-quadro del Consiglio d’Europa sulla protezione delle minoranze nazionali.

Alla luce di queste considerazioni, la Corte europea ha concluso che l’applicazione della shari’a, quando non avvenga per effetto dell’operare delle norme di diritto internazionale privato (e dunque con i limiti dalle stesse previsti), è possibile solo in presenza di una conforme volontà dell’interessato. D’altronde, la Corte ha constatato che questa era ormai la situazione non solo dinanzi agli organi operanti nel territorio del Regno Unito, di cui si è detto più sopra, ma anche nello stesso ordinamento greco, per effetto di una legge entrata in vigore nel 2018, che ammette l’applicazione del diritto islamico in materia di matrimonio, divorzio e successioni solo se tutte le parti interessate concordano in tal senso. Pertanto, l’applicazione della shari’a non quale legge straniera ma come fonte del diritto riconosciuta nell’ordinamento nazionale rimane oggi confinata ai casi in cui tutte le parti abbiano manifestato, nella misura in cui la legge interna lo permetta, la loro volontà diretta a consentirla.

Giacomo Biagioni

Nota – Questo documento è soggetto all’avvertenza riprodotta qui.

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