Ricongiungimento familiare e kafala negoziale

by Antonio Scalera

Cass., sez. I, sentenza 11 novembre 2020, n. 25310

Con sentenza n. 25310, la Corte di cassazione cassa la decisione dei giudici di merito che – accogliendo la domanda di ricongiungimento familiare formulata da un cittadino pakistano nei confronti del fratello minore, a lui affidato dalla madre sulla base di una convenzione privata – avevano omesso il riferimento all’istituto della kafala.

I fatti

La fattispecie in esame ha ad oggetto la domanda presentata da un cittadino pakistano, già titolare di permesso per asilo politico, per il ricongiungimento familiare col fratello minore. L’ambasciata italiana a Islamabad ha negato il visto. Il richiedente ha proposto ricorso contro il provvedimento di diniego, che è stato annullato dal Tribunale di Genova. La Corte d’appello ha confermato l’ordinanza di primo grado, impugnata dal Ministero dell’interno e dal Ministero degli esteri.
La ragione in base alla quale la Corte ligure ha respinto il gravame è che il fratello minore è stato affidato al richiedente in forza di una dichiarazione giurata della madre, vidimata da un notaio; inoltre, poiché l’affidamento parentale è libero ai sensi dell’art. 9 della legge n. 184/1983 (c.d. “legge adozioni”), non poteva rilevarsi, nel caso di specie, un contrasto con la normativa nazionale.
Infine, i giudici di appello hanno escluso che, nella controversia in oggetto, fosse applicabile la disciplina sulla kafala, atteso che la madre aveva affidato direttamente il minore alle cure del fratello maggiore.
Il Ministero dell’interno e il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale hanno impugnato la sentenza, osservando che il vincolo di fratellanza non è in alcun modo richiamato dall’art. 29, comma 2 del d. lgsl. n. 286/1998 (d’ora innanzi, T.U. Imm.), in base al quale, ai fini del ricongiungimento con i “minori di età”, è attribuito rilievo soltanto al rapporto di filiazione, all’adozione, all’affidamento e alla tutela.
La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata, ritenendola, in sintesi, errata perché priva di qualsivoglia riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di kafala.

La pronuncia

Il punto cruciale della questione è se sussista o meno il diritto di un cittadino straniero al ricongiungimento familiare col fratello minore, affidato al richiedente sulla base di una dichiarazione della madre e vidimata da un notaio.
Più in particolare, si tratta di comprendere se tra i “minori affidati” – che, in base all’art. 29, comma 2 T.U. Imm., sono equiparati ai figli – possano annoverarsi anche quei minori dei quali il fratello maggiore è chiamato a prendersi cura per volontà della madre.
La risposta (non incondizionatamente) affermativa al quesito viene fornita dalla Suprema Corte all’esito di un percorso argomentativo diverso da quello seguito dai giudici di merito. Mentre, infatti, la Corte d’appello ha ritenuto che la domanda di ricongiungimento dovesse essere accolta in ragione del solo fatto che il minore era stato affidato al richiedente in forza di una dichiarazione di volontà della madre (trasfusa in un atto notarile), i giudici di legittimità giungono, invece, alla stessa conclusione di accoglimento della domanda (sia pure subordinandola all’accertamento in concreto da parte dei giudici di merito di una serie di requisiti di cui si dirà in seguito), attraverso il richiamo ad alcuni precedenti giurisprudenziali formatisi in tema di kafala.
Un orientamento minoritario ha, invero, sostenuto che il citato art. 29, comma 2 non potesse essere interpretato estensivamente, neppure in base all’art. 28, comma 2 del medesimo T.U. Imm. e si è, al riguardo, precisato che tale ultima norma, nel consentire l’applicazione delle norme più favorevoli, “si riferisce esclusivamente a quelle che disciplinano le modalità del ricongiungimento, con esclusione evidente della possibilità di sostituire con le proprie peculiari previsioni quelle proprie di ciascun paese dell’Unione Europea individuanti il familiare beneficiario” (Cass. Civ., Sez. I, sentenza 1 marzo 2010, n. 4868).
Successivamente, questo orientamento restrittivo è stato superato dalle Sezioni Unite, essendosi affermato che “non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse di minore cittadino extracomunitario affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito” (Cass. S.U., sentenza 16 settembre 2013, n. 21108).
La soluzione delle Sezioni Unite è stata elaborata avendo esclusivo riguardo alle ipotesi di “kafalah” giudiziale.
Solo alcuni anni dopo, l’interpretazione estensiva è stata adottata dalla Suprema Corte, anche in ipotesi di kafala negoziale omologata, essendo quest’ultimo un istituto che “solo in quanto finalizzato a realizzare l’interesse superiore del minore, non contrasta con i principi dell’ordine pubblico italiano e neppure con quelli della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo” (Cass. Civ., Sez. I, sentenza 2 febbraio 2015, n. 1843).
Tornando al caso oggetto della pronuncia in esame, la vicenda, secondo la Suprema Corte, avrebbe dovuto essere esaminata tenendo conto della natura e della finalità della kafala negoziale, senza limitarsi all’apodittico rilievo della non contrarietà all’ordinamento interno dell’atto di affidamento del minore dalla madre al fratello maggiore.
Più in particolare, i giudici di legittimità hanno osservato che il giudice di merito avrebbe dovuto qualificare giuridicamente l’atto di affidamento e verificarne la “effettiva ragione pratico-giuridica”, la conformità alla disciplina del Paese di provenienza e, da ultimo, la corrispondenza all’interesse del minore.

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