Divorzio, responsabilità genitoriale e applicazione del diritto cinese

by Francesco Angelini

Tribunale di Roma, I sez. civile, sentenza 5 ottobre 2022, n. 14483

Con sentenza n. 14483/2022, il Tribunale di Roma ha affrontato un ventaglio di questioni di rilievo internazionalprivatistico nel quadro del divorzio di una famiglia di nazionalità cinese e residente in Italia. La pronuncia si distingue, tra le altre cose, per l’importanza che il tribunale capitolino accorda alla necessità di esaminare il diritto cinese applicabile, anche alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte del Popolo, nonché per l’esigenza di coordinare tale normativa con i principi di ordine pubblico del foro. Per un approfondimento sulla legge sostanziale applicabile a separazione e divorzio, si rinvia a questo post.

Il fatto

Con ricorso congiunto depositato nel settembre 2021, due coniugi chiedevano al Tribunale di Roma l’immediato scioglimento del matrimonio, senza previa separazione personale, sulla base dell’applicazione del diritto cinese.

Con riguardo all’affidamento dei figli minori, i coniugi chiedevano per l’uno l’affidamento congiunto con collocamento paritetico, in applicazione del diritto italiano e nulla, invece, con riguardo al primogenito, il quale viveva stabilmente con i nonni paterni in Cina, instando per il conseguente difetto di giurisdizione del giudice italiano.

Le questioni affrontate

Il collegio ha scisso, nell’ambito dell’analisi della competenza giurisdizionale e del diritto applicabile, le questioni matrimoniali da quelle afferenti la responsabilità genitoriale.

Per quel che concerne la competenza giurisdizionale in tema di scioglimento del matrimonio, il Tribunale si è ritenuto munito di giurisdizione in forza dell’art. 3 del regolamento (CE) n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale (c.d. “Bruxelles II bis”), dal momento che i due coniugi avevano stabilito la loro residenza abituale in Italia.

Risiedendo poi un figlio minore con i genitori in Italia, il Tribunale ha considerato di ritenere la competenza giurisdizionale nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 8 dello stesso regolamento “Bruxelles II bis”, , mentre si è ritenuto privo di giurisdizione nei riguardi del primogenito , poiché residente abituale presso l’abitazione dei nonni paterni in Cina.

Anche in tema di diritto applicabile, il collegio ha scisso l’analisi della questione in due parti, una concernente lo scioglimento del matrimonio e l’altra la materia della responsabilità genitoriale nei confronti del figlio minore. Quanto alla prima parte, , il collegio ha fatto perno sull’applicazione universale delle norme di conflitto contenute nel regolamento (UE) n. 1259/2010 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (“Roma III”), atte a designare anche ordinamenti di Stati terzi. Il Tribunale ha dunque affermato come il diritto cinese sia applicabile alla fattispecie innanzi a sé in forza del criterio di collegamento della libertà delle parti che hanno scelto il diritto dello Stato di cui entrambi erano cittadini. La sentenza, tuttavia, non si sofferma sulle modalità alle quali tale scelta sia stata fatta, puntualmente indicate dal regolamento “Roma III” (art. 7).

Sebbene oggi in Cina la materia del diritto di famiglia sia disciplinata dal codice civile della Repubblica Popolare Cinese (in vigore dal 1° gennaio 2021), il Tribunale di Roma ha ritenuto che la fattispecie concreta fosse retta dalla Legge sul matrimonio del 10 settembre 1980 (come novellata a seguito del decreto n. 51 del 28aprile 2001), dal momento che i coniugi si erano sposati nei primi anni duemila. Nell’ambito di tale normativa, particolare importanza è stata data all’art. 31 di tale legge, laddove afferma che “ai coniugi che volontariamente decidono entrambi di divorziare, può essere concesso il divorzio[…]”.

Nell’interpretare tale norma infatti, il Tribunale di Roma ha fatto piena applicazione della norma di cui all’art. 15 della legge 31 maggio 1995, n. 218 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, secondo cui il giudice italiano non è tenuto ad applicare la mera legge statale straniera, ma deve, nei limiti del possibile, applicare il diritto straniero, comprensivo delle relative interpretazioni giurisprudenziali dominanti. Nell’accertare l’applicazione concreta dell’art. 31 della Legge sul Matrimonio, il giudice di prime cure ha fatto riferimento ai c.d. Dianxin Anli del 4 dicembre 2015, una raccolta dei casi più importanti e decisi dalla Corte Suprema cinese, dotati di particolare autorevolezza nell’ambito del diritto di famiglia cinese.

Dalla disamina di tali casi, il giudice capitolino ha tratto la duplice conclusione che lo scioglimento del matrimonio in Cina è consentito senza il previo ricorso alla separazione personale e che tale scioglimento non costituisce un vero e proprio diritto soggettivo, poiché lo stesso è soggetto alle valutazioni dell’autorità giurisdizionale, in nome di un interesse superiore alla tutela dell’unità familiare in generale e dei figli minori in particolare.

Nella comparazione e valutazione di compatibilità di tale normativa con l’ordinamento giuridico italiano, il Tribunale di Roma ha ritenuto che il diritto cinese non violi il limite dell’ordine pubblico internazionale consentendo l’accesso diretto allo scioglimento del matrimonio, dal momento che la separazione personale non costituisce un istituto di sistema a presidio di valori costituzionali irrinunciabili, come anche dimostrato dalle ipotesi di c.d. divorzio per saltum previstedall’art. 3 della legge n. 898/1970. Il Tribunale ha inoltre ritenuto che violi il diritto della personalità di ciascun coniuge ad ottenere lo scioglimento del matrimonio, l’apposizione da parte dell’ordinamento straniero di vincoli e restrizioni a tale possibilità – sebbene nell’interesse di altri valori di rilievo costituzionale – in considerazione della natura indisponibile, irrinunciabile e imprescrittibile della pretesa del coniuge alla cessazione del vincolo matrimoniale.

Per quanto riguarda invece il diritto applicabile alle questioni di responsabilità genitoriale sul figlio minore, il Tribunale di Roma, rilevato che la materia non è stata fatta oggetto di normazione europea, richiama l’art. 36 della legge n. 218/1995, applicabile in via residuale. Tale norma – che non consente alcuna possibilità di scelta della normativa applicabile né ai genitori né ai figli – sancisce come i rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli, compresa la responsabilità genitoriale, sono regolati dalla legge nazionale del figlio. Poiché il minore al momento della domanda era cittadino di nazionalità cinese, i giudici hanno ritenuto applicabile anche in questo ambito il diritto cinese. Ad impedire tale esito hanno però considerato dirimente il richiamo alla disciplina della responsabilità genitoriale di diritto italiano – elevata a normativa di applicazione necessaria dall’art. 36 bis della legge n. 218/1995 (introdotto dall’art. 101 co. 1 lett. d) D. lgs 154/2013). A conforto della decisione da ultimo adottata, i giudici della Capitale si sono richiamati al noto orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione,  secondo cui le norme di applicazione necessaria sono «norme la cui osservanza è stata reputata cruciale per la salvaguardia dell’organizzazione politica, sociale o economica dello Stato interessato, al punto da imporne il rispetto a chiunque si trovi nel territorio nazionale di tale Stato o a qualunque rapporto giuridico localizzato nel suo territorio» (sentenza 23 novembre 1999, procedimenti riuniti C-369/96 e C-376/96, Arblade e Leloup, punto 30).

Ad analoga applicazione della legge sostanziale italiana avrebbe in ogni caso condotto l’art. 15, par. 1 della Convenzione dell’Aja del 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, eseguita in Italia con legge 18 giugno 2015, n. 101. Tale disposizione, sovraordinata all’art. 36 l. n. 218/1995 (che assume dunque un ruolo residuale, come correttamente rilevato), stabilisce invero che “… le autorità degli Stati contraenti applicano la propria legge”.

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